Comedian

Comedian Cattelan

Comedian, Maurizio Cattelan, 2019

Maurizio Cattelan, artista proteiforme e graffiante, attacca una banana ad una parete con un pezzo di nastro ed il gesto si fa opera d’arte da 120 mila dollari. Appiccicato alla parete, il frutto graziosamente paglierino, che abitualmente abita le nostre cucine, appare decontestualizzato e provocatorio.

Sulla parete, la banana appesa si lascia osservare come un feticcio, marcisce un po’ tutti i giorni, eppure non si dissolve nel deperimento: il frutto va devotamente sostituito (mangiato?) per alimentare l’opera in sé che rimarrà dunque identica a se stessa.

Del resto, il collezionista che ha il coraggio di acquistare Comedian, non acquista l’ordinaria materia deperibile, ma l’idea immateriale.

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Giovanni Anselmo, Senza titolo, 1967

Giovanni Anselmo, già alla fine degli anni 60, inserisce un vegetale, un cesto di insalata, in una struttura di granito: “una scultura che mangia”, crea così un equilibrio di materiali diversi che necessita, per rimanere tale, una continua sostituzione vegetale.

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Yves Klein “Zone de sensibilité picturale immatérielle” -Parigi, Pont-au-Double, 26 gennaio 1962

Yves Klein vendeva nel 1962 aree immateriali a “peso” d’oro (oro poi gettato nella Senna o trasformato in ex-voto per riequilibrare l’armonia del tutto) nell’intento di educare le persone a percepire il senso dello spazio vuoto, “l’urbanistica dell’aria”.

Un’opera di Cattelan come Comedian, è ironica, strategica già nel titolo affinché diventi a oltranza oggetto di discussione e di marketing. Un’opera che sopravvive a se stessa nell’esaurirsi, e resta prodotto di consumo fino all’esasperazione.

Fa  dunque riflettere su ciò che attualmente può essere definito opera d’arte, quali contenuti innovativi si riesca davvero a produrre.

Scritto da Dayla Venturi

Foto dal web

 

L’amica geniale (Quadrilogia), Elena Ferrante

 

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Sullo sfondo di una Napoli condensata dalla memoria, ora violenta, ora passionale, s’inerpica la scrittura visionaria di Elena Ferrante, scrittrice raffinata, tenacemente avvolta in un’aura di mistero.

Una storia lunga, quella di Lenù e Lila, un’amicizia radicata nell’infanzia di un rione squallido, cruento, pullulante di vita, ai margini di una città barocca, dove la sopravvivenza è questione di voce, chiasso espansivo, ferinità. L’intelligenza coltivata nello studio diventa il sacrificio della svolta, la fuga verso una realtà diversa, dove solo Lenù, l’amica geniale per Lila, può aggrapparsi. Lila, no, lei è un grumo cattivo di orgoglio, una brillantezza sfolgorante ed impetuosa, che tesse trame e vendette nella sua feroce, disillusa, scalata sociale.

La serie di quattro volumi (L’amica geniale, Storia del nuovo cognome, Storia di chi va e di chi resta, Storia della bambina perduta) raccoglie il racconto di una sorellanza difficile, si aggroviglia fino a raggiungere l’età matura, scava oltre la superficie dell’ovvio, scardina luoghi comuni, s’immerge nell’istintualità contraddittoria, quanto volutamente irritante, dei personaggi. E questi, i Cerullo, i Greco, i Solara, la famiglia Sarratore, gli Airota, si affollano tra le smagliature del tempo con un loro fascino sanguigno o disciplinato, per poi diventare ombre decadute, pregne di dolore e rancore.

Matrimoni, convivenze, divorzi, figli, amori e disamori, si susseguono negli anni, sembrano uscire da un album dei ricordi, istantanee che dal nero e bianco si fanno variopinte, una coloritura pastosa che si attacca alle parole, a un dialetto puro, umorale e sfrontato. Intorno, come una cornice stridente agli amori desiderati e consumati, il passare del tempo, le ideologie che invecchiano, gli anni oscuri del terrorismo che s’infilano tra le faide sanguinose del rione. Il rione e Napoli che deborda fuori con la sua bellezza commovente. Ed è il richiamo di un legame che travolge le due donne, avvinghiate a una storia che le accomuna senza rimedio, l’essere silenziosamente necessarie l’una all’altra in un percorso di comprensione speculare, simbiotica, tanto che solo Lenù sa cosa si agita nella torva irrazionalità dell’amica e soltanto Lila sa cosa si macera nella mente di Lenù.

C’è lo stesso desiderio d’espressione, di essere donne diverse dalle donne della generazione che le precede, di cercare ansiosamente una loro autonomia, liberarsi con estrema difficoltà dalla seduzione maschile, da quella dipendenza, emozionale, materiale e culturale, che si è come incistata dentro di loro. Ma ci sono anche perdite inenarrabili, un’angoscia muta che strepita, svicola, e condizionerà le loro esistenze.

Una scrittura fluida, quella della Ferrante, un sapiente muoversi nei meccanismi narrativi, una capacità d’introspezione dei personaggi che ammalia e trattiene il lettore, lo avvince alla narrazione. E soprattutto, una capacità di sprofondare nelle pieghe del non detto, di portare alla superficie quelle trame sottili dell’Io, quel sondare dimensioni diverse, “smarginature” che brulicano in un pulviscolo di parole rarefatte, in bilico tra sogno e realtà. Tra il margine che s’incrina nel crudo spessore della vita e il suo diffondersi scaramantico nelle profondità oscure di una lingua che si fa gesto, visione e tormento.

Scritto da Dayla Venturi

Gennaio 2018

 

Foto  tratta dal web

 

Gli anni, romanzo di Annie Ernaux

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Annie Ernaux

Nel romanzo Gli anni (L’orma editore, 2015), la scrittrice francese Annie Ernaux  narra gli eventi di una vita, riflessi e influenzati dai fatti storici e sociali, a partire dal dopo guerra fino a oggi. E lo fa con una scrittura fluente, piacevole da leggere, intimista, ma che non lusinga mai le aspettative del lettore a far parte parte delle sue confidenze.

Gli anni, sono quelli che passano attraverso l’obiettivo della macchina fotografica: foto  in sequenza che accompagnano il lettore  in uno spostamento quasi  Barthesiano verso il punto di attrazione, il dettaglio minimo sospeso sulla memoria come “una corda per il bucato alla quale è rimasta appesa una molletta”. Tra le pagine del romanzo fluisce  dunque la vita di una donna, le fasi più importanti di un percorso che la accomuna a tante altre donne, l’infanzia proletaria, l’innamoramento, il suo lavoro d’insegnante, la maternità, il divorzio, la menopausa, il cancro al seno: il confrontarsi con sé stessa nel tempo che passa, il mutare dei pensieri nel corpo che cambia o si ribella al cambiamento. Nessuna edulcorazione del ricordo, piuttosto una ricostruzione di fatti che s’incastrano al suo respiro, scorrono in profondità o solo sulla pelle.

La distanza dai tempi ovattati dell’infanzia riemerge nei racconti familiari durante il dopo pranzo festivo, “racconto famigliare e racconto sociale” che imprime sentimenti forti e solidarietà nella desolazione di un dopoguerra e che lascia al ricordo solo tracce di macerie spazzate via. Tempi altri che si sfumano nelle generazioni superstiti, strette in case di terra battuta, tra latrine che scolano sul fiume. Queste sono le radici annodate al bianco e nero delle foto, alle cose”prima della guerra”, oggetti e modi di pensare, in un tempo leggero, in cui le persone viaggiano a piedi o in bicicletta: “Il silenzio era il sottofondo delle cose e la bicicletta misurava la velocità della vita”. E loro, pallidi “bambini della guerra” si addentrano nella Ricostruzione, tra il Terital e le luci al neon. Sono immagini di giovinezza che un’altra foto ci restituisce, giorni da studentessa durante la guerra fredda, a ingrassare il divario culturale tra lei e la sua famiglia: le letture di Sartre, di Simone de Beauvoir. Un pomeriggio al cinema a vedere “L’anno scorso a Marienbad”.

La scrittura può rianimare il tempo, una recherche pulsante degli anni, di intimi turbamenti e di eventi storici che plasmano i pensieri, il cambiamento delle abitudini, l’affievolirsi delle emozioni del passato addomesticate dai tempi nuovi, dal “progresso e il mobilio comprato a rate”. Quel mutare dei comportamenti nella società francese che Annie Ernaux analizza con lucidità: un cedere senza rimorsi al benessere del superfluo nel ritmo ossessivo di jingle televisivi.

Una scrittura speculare al personaggio femminile che imbastisce l’ordito del romanzo, un sottile narrarsi della scrittrice attraverso lo sguardo dell’altra, in un’intelaiatura narrativa efficace, costruita da elenchi di cose, solitudini, ritagli di giornali sparsi sulla scrivania. E’ così che la Storia, nei frammenti di un Maggio arroventato, di guerre”intelligenti”, cadute di Muri ma non di pregiudizi, affianca la sua storia personale nel susseguirsi delle stagioni, di decennio in decennio. E sullo sfondo, altre foto, d’interni, di colori, abiti più moderni, spalle più ossute. Una resistenza fisica al tempo, un tempo che s’impiglia, quello investigato dalla scrittrice francese, nelle maglie dell’esistenza, in un’infinita sequenza di porte chiuse. “Sensazione palinsesto”, la chiama, nel disincanto di una storia che scorre tra immagini e memorie, finché , alla fine, si fonde con la scrittura stessa, si fa libro.

Scritto da Dayla Venturi

Foto dal tratta dal web

3 Dicembre

Antonia Pozzi 1

Antonia Pozzi

All’ultimo tumulto dei binari

hai la tua pace, dove la città

in un volo di ponti e di viali

si getta alla campagna

e chi passa non sa

di te come tu non sai

degli echi delle cacce che ti sfiorano.

Pace forse è davvero la tua

e gli occhi che noi richiudemmo

per sempre ora riaperti

stupiscono

che ancora per noi

tu muoia un poco ogni anno

in questo giorno.”

 3 Dicembre

poesia di Vittorio Sereni dedicata alla poetessa e amica, Antonia Pozzi

Vittorio Sereni1

Vittorio Sereni

Foto dal web

Acculturazione e acculturazione

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Pier Paolo Pasolini

Raccolto nel testo “Scritti corsari”, l’articolo, che Pasolini scrisse sul Corriere della sera nel dicembre del 1973 con il titolo “Sfida ai dirigenti della televisione”, svela con lucidità il degrado della società italiana. Il suo sguardo di intellettuale ci immerge nella storia con un distacco partecipato, pungente sul disgregarsi del corpo vitale, rozzo ma autosufficiente, di quelle periferie radicate ai margini delle città. L’abolizione delle distanze, materiali e virtuali, spoglia una fascia sociale di quei valori contadini perpetuati nel tempo e che in quel momento storico lasceranno un vuoto di ideali, subito riempito dai modelli proposti dalla società dei consumi. Le culture originali sono piegate all’omologazione, veicolate dai medium, la televisione, “autoritaria e repressiva”, in un adeguamento ai modelli “voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un “uomo che consuma”, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo.”

Pasolini volle proporre un modo diverso di fare cultura e poesia, la parola per lui si caricava di significati e contenuti che andavano oltre la liricità, scavò nel fondo torbido della storia di un paese per mostrarne, alla fine, una consunta irredimibilità.

La solitudine: bisogna essere molto forti
per amare la solitudine; bisogna avere buone gambe
e una resistenza fuori dal comune; non si deve rischiare
raffreddore, influenza e mal di gola; non si devono temere
rapinatori o assassini; se tocca camminare
per tutto il pomeriggio o magari per tutta la sera
bisogna saperlo fare senza accorgersene; da sedersi non c’è;
specie d’inverno; col vento che tira sull’erba bagnata,
e coi pietroni tra l’immondizia umidi e fangosi;
non c’è proprio nessun conforto, su ciò non c’è dubbio,
oltre a quello di avere davanti tutto un giorno e una notte
senza doveri o limiti di qualsiasi genere.(…)”

P.P.Pasolini (5 marzo 1922 –  2 novembre 1975), Versi del testamento

Pubblicato da Dayla Venturi

L’OuLiPo e il meccanismo potenziale della letteratura

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Il “Piccolo Sillabario Illustrato” di Italo Calvino è un curioso testo “oulipiano” (come del resto, con i suoi dieci incipit e una struttura geometrica che lega tra loro gli eventi di ogni capitolo,  è oulipiano anche il suo romanzo “Se una notte d’inverno un viaggiatore“) che si ispira a “Petit abécédaire illustré» di Georges Perec.

In questo testo, che uscì nel 1977  sul primo numero de “Il Caffè”, Calvino sfida, con 19 esercizi, le difficoltà della lingua italiana scrivendo testi brevissimi che rispettano regole ben precise (quali la successione di ogni consonante e delle cinque vocali : BA-BE-BI-BO-BU, CA-CE-CI-CO-CU ecc… così Ulrica, per es., decisa a conquistare Bob, lo segue in crociera, finché ci riesce e, giunta a Bab-el Mandeblo, scrive telegraficamente all’amica: “Bab. Ebbi Bob. U.”).

Il testo risente del contatto che Calvino ebbe con l’OuLiPolaboratorio di letteratura potenziale, fondato nel 1960 da Raymond Queneau, scrittore, matematico e ‘patafisico.

Italo Calvino

Italo Calvino

L’aspetto affascinante degli intenti del gruppo che si formerà intorno all’OuLiPo, è dato dall’addentrarsi nella struttura del linguaggio, il fare una scrittura che sia soggetta a costrizioni (Contraintes) lessicali, grammaticali, strutturali  come l’ “acrostico”, il “lipogramma”, il “palindromo”, l’ “olorima. Un esercizio di smontaggio e rimontaggio delle parole che conduce, proprio attraverso la costrizione a seguire determinate regole, al potenziamento della creatività, un impegno di energie per trovare significati altri delle parole, nuove strategie e artifici narrativi.

Gli scrittori, che nel tempo hanno aderito a questo gruppo, applicano sistemi matematici e combinatori al linguaggio, e hanno sentito la necessità di dare un’intelaiatura, una cornice, disciplinata da regole e sommersa nel testo, alla scrittura. Un lavorare, il loro, ludicamente sui codici linguistici fino a sorprendere il lettore.

Il testo più conosciuto legato all’OuLiPo è sicuramente “Exercises de Style” (1947) di Queneau (anche se in realtà  mi vengono in mente “Zazie dans le métro” o “Les fleurs bleues“), un’interessante e giocosa esplorazione del linguaggio che produce 99 variazioni in stili diversi di un banale episodio di vita quotidiana,

Raymond Queneau

Raymond Queneau

Ma ci sono altri testi poco conosciuti da considerare tra cui “La belle Hortense” (1985) di Jacques Roubaud, dove lo scrittore sfida la struttura lineare del romanzo (tanto che l’autore, i personaggi, il narratore e il lettore sono tutti insieme protagonisti del romanzo), attinge a Fibonacci, alla Sezione Aurea e dà al testo una struttura che si basa sulla permutazione della sestina (sei capitoli, divisi in sei parti ciascuna)

Jacques Roubaud.

Jacques Roubaud

E soprattutto “La vie mode d’emploi” (1978) di Georges Perec, un romanzo strutturato come una scatola contenente una moltitudine di romanzi (che Calvino, nelle sue “Lezioni americane“, considera un esempio di iperromanzo), palazzo-scacchiera dove le categorie presentate (citazioni letterarie, date storiche, mobili, oggetti, stili…) si combinano in base a procedimenti matematici che fanno di Perec un collezionista di parole e memorie.

George Perec, sguardo irriverente sul mondo, così ebbe modo di definire “La vie mode d’emploi“, opera aperta alle interpretazioni del lettore, in una intervista nel dicembre 1978 su Antenne 2:

Georges Perec.

Georges Perec

“J’essaie d’envisager ce livre comme un jeu entre le lecteur et moi. C’est-à-dire, je pense que ce qui est extrêmement important, c’est de laisser aux lecteurs la liberté dans un livre. Que le livre soit quelque chose d’ouvert et pas de fermé, pas de fermé autour d’un thème ou d’une idée ou de grands mots ou d’un grand axe mais que il puisse à l’intérieur du livre, respirer. Et être disons… être bien, il peut jouer avec. C’est-à-dire que l’image du puzzle, pour moi, est une image fondamentale pour expliquer la construction de ce livre. En même temps, c’est pour moi, le désir de laisser un certain nombre d’événements, un certain nombre de biographies, d’histoires de gens, en suspens. Inviter le lecteur à ouvrir après avoir lu le livre, l’ouvrir au hasard, se servir de l’index comme une règle du jeu et reconstituer les histoires …” G. Perec

Scritto da Dayla Venturi

Alfred Hitchcock e la scena del bicchiere di latte: una riscrittura

Il sospetto

Il Sospetto 1941

La luce della lampadina è un vuoto di buio nel rettangolo della porta. Giusto un flash subito appassito nel silenzio, tra chiaroscuri a ragnatela, giù dal lucernario. Lui adora questa penombra senza elettricità che invade il salone, scivola sulle sue mani, si adagia sulla sua faccia come una maschera oscura.

Le ha preparato qualcosa da bere nella cucina, ha fatto anche un po’ di rumore, ma lieve, un tintinnio di stoviglie nel girare il cucchiaino. E l’acciaio del vassoio, che lei crede sia ancora quello d’argento,  resta freddo tra le dita, ora che lui si muove disinvolto nella griglia d’ombre della scala. Potrebbe  salire a occhi chiusi, cedendo eleganza a ogni gradino, quasi ne avesse in esubero e non la volesse trattenere. Forse qualcosa trattiene, quasi impercettibile, un segreto, uno di quei segreti che lasciano brusii tra i pensieri.

Sale ancora. La notte è fonda. E sul vassoio il latte si aggrappa, spettrale, al bicchiere.

suspicion.

Suspicion (1941)

Lei ingoia saliva acida e sfoggia un pallore di raso tra i cuscini. Un’attesa misurata anche quando, i passi più vicini, lui si fa spazio nella camera e l’assillo diventa Grand’Goule infilzato nei pensieri, extrasistole sotto il négligè.
“L’avrà messo nel fondo del bicchiere, lì dove il bianco sembra più insidioso? E non lascerà tracce, niente di niente?”, si chiede in una traiettoria di sguardi, catastrofi, e liquidi fatali. Frammenti di gesti disattesi e frottole che lei ha incollato pazientemente per costruire il suo mostro personale.

Eppure, lui la cerca con labbra da buonanotte, indugia più del necessario, “Potessi credere alle sue parole, perdonare la sua frivolezza per chiudermi nel suo collo e fare ancora la mogliettina affettuosa”, pensa, ma il dubbio alleva tarli giganteschi, scava crateri sotterranei, caverne senza fine. Così lei tace, un riserbo docile, quasi una via di fuga. Adesso che lui si congeda e lei lo guarda, gli occhi grandi e senza sonno.

Guarda ancora. La notte è lunga. E sul vassoio il latte irrancidisce, quieto, nel bicchiere.

Scritto da Dayla Venturi

Alfred Hitchcock

Il racconto è una libera riscrittura della scena del bicchiere di latte nel film “Il sospetto” (Suspicion, 1941), di Alfred  Hitchcock, dove il regista rende luminescente il latte contenuto nel bicchiere, introducendovi una lampadina. Questo  espediente geniale riesce a calamitare l’attenzione degli spettatori, rendendo la scena emotivamente carica di inquietudine. Il regista usa il latte per creare tensione anche nel film “Io ti salverò” (Spellbound, 1945).

Il certo e l’incerto, un romanzo di Clara Spada

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Nel romanzo di Clara Spada, “Il certo e l’incerto” (Logus Editore, 2013), il tempo di una vita si dipana dall’interno di stanze sconosciute, claustrofobiche, dove la proiezione dell’Io attraversa le increspature della superficie certa del proprio esistere e si lascia sprofondare e tormentare nell’incertezza limacciosa dell’inconscio, come verso il fondo di acque torbide e lacustri.

La voce narrante è sulla spalla del protagonista, Stefano, un uomo di successo che si trova imbrigliato nei cerchi concentrici di impulsi ed emozioni incontrollabili, ne sfiora i pensieri, le associazioni, le memorie. Ci fa ascoltare il flusso del rimuginare interiore, la fragilità, l’inquietudine sfarzosa che porta Stefano a rivisitare l’intensità delle relazioni amorose con le donne del suo passato.

Un romanzo ben costruito, una solida architettura narrativa, Clara Spada sa trascinare il lettore nel ritmo della scrittura, tenendolo sospeso e “ignaro”. Uno scavo psicologico forte che caratterizza il personaggio e le sue nevrosi.

Redatto da Dayla Venturi

Clara Spada è nata a Sassari, vive fra Roma e Cagliari. Ha  conseguito il Magistero in Teologia summa cum laude. Ha scritto e scrive su quotidiani e riviste, ha collaborato con RAI2 e radio private. Ha pubblicato i
primi due libri con la Mursia, il primo tradotto e pubblicato in Francia. Con il Maestrale ha pubblicato il giallo “La Chiave del Vaticano” (2009) e ” Un Leone nel Cuore” (2011).

Ombre cinesi

R. Magritte “La Reproduction interdite”

Il trafiletto era sul giornale della sera. In fondo alla pagina delle notizie locali: “Scrittore cerca segretaria tuttofare, ottimo stipendio. Si richiede polidattilia mano destra”. Se non è uno scherzo, questo è il lavoro ideale per me, pensai, mentre guardavo il mio sesto dito, minuscolo, all’ombra del mignolo.

Ripiegai il giornale e lo infilai nella borsa, l’indirizzo era quello giusto. Ero un po’ accaldata quando bussai alla porta del signor Donorio, Teodorico Donorio, scrittore. Sentivo il sudore bagnarmi la camicetta dietro la schiena.
La porta era socchiusa e cedette subito alla mia spinta. L’interno era immerso in una semi-oscurità. Con cautela avanzai nella stanza, tende pesanti oscuravano le finestre, al centro un grande tavolo ingombro di libri. Sopra il caminetto, un drappo di stoffa copriva una parte della parete.
La poca luce proveniva da una lampada posta in un angolo dove qualcuno era seduto di spalle in una poltrona. Mentre mi avvicinavo a quel punto, mi presentai:
“Sono qui, per il posto di lavoro, Adele, Adele Baldassini, è lei lo scrittore Donorio?
Mi morsi un labbro, perchè ero così impulsiva? L’uomo non aveva ancora aperto bocca, nemmeno si era mosso dalla sua posizione, continuava a mostrarmi le spalle. Davvero molto educato.
“…Sì”, tagliò corto l’uomo, come se quella risposta fosse la parte finale di un lungo discorso.
“Resti dietro di me e mi mostri la sua mano destra”.
Spostai lentamente la manica della camicetta, e sporsi la mano al di sopra della sua spalla, nell’unico alone di luce della stanza. Trattenni il respiro.
La mia mano rimase sospesa ancora per qualche minuto, bianca, il polso nudo. La sfiorò con la sua, guantata. Quella strana mania per le dita mi inquietava.
“La sua mano è perfetta per questo lavoro” e lo disse con un certo compiacimento, “lei scriverà ciò che le detterò, quattro ore la mattina. Cinque giorni a settimana. Un capitolo al giorno. Riceverà lo stipendio anticipato. Cominciamo domani”.
Era tutto, telegrafico. Nessun’altra spiegazione. Nessun’altra richiesta o competenza, solo trascrivere a mano le sue parole.
Potevo ritenermi soddisfatta. Avevo un lavoro. Non male per una novellina.

Arrivai la mattina presto, in silenzio mi tolsi il soprabito e il cappellino, lisciai la gonna e mi sedetti ben dritta a un lato del grande tavolo, dove trovai un blocco di carta e una fila di matite tutte perfettamente temperate. Alla luce di una piccola abat-jour, attesi che Donorio iniziasse a dettare.
Era di nuovo seduto di spalle nella sua poltrona di vellutino. Potevo vedere la sua nuca, i capelli castani ben curati, la camicia bianca dal collo rigido, la sua giacca nera.
“Capitolo primo”
La sua voce era profonda e mi distolse dai miei pensieri, presi subito la prima matita e iniziai a scrivere. Per tutta la sessione di lavoro, l’uomo-nuca non si voltò mai.

I giorni trascorrevano tutti nello stesso modo, Donorio dettava nascosto nella poltrona, io scrivevo con cura. Non si mostrava mai. Potevo decifrare sfumature del suo carattere dal tono della voce, una scioltezza di parola che prendeva ora d’aspro, ora di una dolcezza malinconica. Nel fluire narrativo, a volte iniziava digressioni profonde o parlava di luoghi lontani. Allora mi chiedeva di fermarmi, appoggiare la matita e ascoltare, come se dovesse raccogliere le idee.
Passò così la prima settimana e senza quasi accorgermene mi lasciai sedurre dalle atmosfere deI romanzo. Così, rileggendo il testo ad alta voce, capitava che un personaggio prendesse consistenza nella stanza:
“… da mocciosi ci scrutavamo, io e Teodoro. Sputavamo nelle pozzanghere cercando nei nostri volti differenze che non c’erano. I nostri occhi si riflettevano come in uno specchio. Identici e neri. Se non fosse stato per quelle sue dita, per quel moncone penzoloni in sovrappiù, lasciato solo a lui dal chirurgo che ci separò, saremmo stati perfettamente uguali. Dall’adolescenza uscimmo insieme, diventammo uomini dopo avere letto quel libro infernale che era Gordon Prym e facemmo un patto diabolico, ci scambiammo l’identità, guardandoci davanti a uno specchio…”
La matita era scivolata in terra, mi piegai per raccoglierla e quando mi alzai, Teodoro se ne stava seduto sul tavolo a gambe incrociate, la giacca nera, uno sguardo di carbone, la mascella insolente e il sesto dito, rattrappito nella mano modellata sulla mia. Come fosse sgusciato fuori dalle pagine non lo so. Ripresi a scrivere per non perdere il ritmo, mi lusingava che la mia mano si fosse in qualche modo infilata nel libro.
Petulante, il personaggio non mollava.
“Bella, digli di non farmi mani da ragazza, non andare troppo per il sottile”. La sua voce di carta si mescolava al fruscio della grafite sul foglio.
Cercavo dettagli, sfumature, mentre scrivevo sotto dettatura, qualsiasi cosa che, dietro la maschera dei personaggi, lasciasse intuire il vissuto dell’autore. Guardavo l’uomo-nuca e la mia immaginazione andava a briglia sciolta.
“Bella, pensi troppo”
Era ancora lì, Teodoro.
“Sono Adele, precisiamo, ti trovo un personaggio invadente, non puoi appiccicarti così ai miei pensieri. E poi, vestirsi come l’autore, ha un senso?”
“Nessun senso, se non fossi vestito dalle tue ossessioni”
Per farlo tacere, chiusi il blocco di carta.

“Perché non mostra mai il suo volto?” Gli chiesi a bruciapelo, una mattina, sorpresa della mia audacia. Donorio interruppe bruscamente la dettatura, magari se la aspettava, quella domanda. Tacque a lungo in un silenzio imbarazzante, durante il quale fu difficile tenere a bada Teodoro, che entrava e usciva dal romanzo, digrignava i denti infastidito per essere rimasto appeso a metà delle sue azioni.
“Adele, si alzi”. Donorio emerse dalla sua reticenza.
“In queste settimane ho apprezzato la sua presenza, ha tolto un po’ di muffa alla mia scrittura, sopportato le mie fissazioni”.
Forse si era accorto dei miei piccoli interventi sul testo, il guinzaglio che a volte mettevo a Teodoro. Arrossii nella penombra, forse immaginava i miei giochetti mentali su di lui.
Mi alzai.
“Tiri giù il drappo da sopra il caminetto” mi pregò.
Guardai il quadro che apparve da sotto la stoffa. Piegai un po’ la testa per mettere a fuoco, nella scarsa luce della stanza, due figure in prospettiva. Due uomini-nuca.
“E’ il dipinto della mia irriproducibilità, Adele.”
Lo specchio dipinto non restituiva lo sguardo, solo teste inaspettatamente girate, mentre un libro in basso si adeguava al riflesso. Il contrasto poteva dare disorientamento, uno scossone visivo. Ma io cominciavo ad avere una certa esperienza di teste voltate.
“Il mio ritratto, Adele”.
Dovevo smettere di guardare il punctum maligno di Gordon Prym, quel libro riflesso mi attirava come una calamita. Eppure non era un libro, era l’immagine di un libro, potevo ignorarlo e il quadro avrebbe assunto nuovi significati. Non sarebbe stato soltanto lo specchio dipinto che sembrava, un falso specchio su uno sfondo vuoto, perfidamente selettivo da rompere le regole dell’abitudine e mostrare un lato insolito della realtà.
Meglio spostare l’attenzione, sì, allora il quadro, sarebbe stato solo il dipinto di un eccentrico gentiluomo che guardava il proprio ritratto di spalle.

Sentii Donorio che respirava dietro di me. Non osavo voltarmi. Forse un vero specchio poteva mettere una zeppa al meccanismo, mostrare altro, qualcosa che sembrava sfuggire. Potevo tentare. Feci scivolare le mie dita nella tasca della gonna dove tenevo uno specchio per le mie piccole vanità. Fu allora che il mio sesto dito, maldestro, s’incastrò nella stoffa, e lo specchio scivolò, schiantandosi rumorosamente in terra. Guardai nei frammenti dello specchio, schegge disordinate sul pavimento, ma apparve soltanto, insolente, il volto di Teodoro.

Scritto da Dayla Venturi

Il racconto è liberamente ispirato al dipinto La Reproduction interdite di R. Magritte

Foto dal web

Distanze

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Nighthawks by Edward Hopper 1942

Le lampade al neon friggevano nel bar accerchiato dalla notte. Friggevano tra il tintinnare sbadato di tazze e bicchieri, spandendo dal soffitto una luce artificiale che s’infilava tra gli oggetti, nell’incavo degli zigomi, e li scavava indifferente.

La  mano aderiva al bancone  come una ventosa. Sentiva il sudore freddo incollare la pelle sul legno, salire verso il braccio fino alla spalla, e poi scendere lungo la schiena. Ma lei non cambiò posizione, continuò a giocherellare con i suoi pensieri, mentre la gonna si sgualciva sullo sgabello.

Aveva lasciato la valigia chiusa sotto il letto, tanto era questione di poche ore, “all’alba sarà tutto finito”, disse a voce alta nel silenzio della stanza. Giusto per dare uno strattone a Betty la Stordita, quella parte di sé  sempre puntuale per annaspare nell’ansia. “E sarò su uno di quei treni schizza binari, lontano da qui”, continuò tra sé. Cosa aveva detto il capo? Sì, “Un servizio veloce, Elisabeth, una missione delicata, informazioni scottanti, così impari a farti le ossa”. Un po’ di pressione, certo. E forse nemmeno poteva rifiutare. Si era guardata in uno specchio appeso a un groviglio di peonie stinte e non si era piaciuta, quella messa in piega faceva pena.  “Troppo rosso”, pensò, sfiorando il lipstick con le labbra, prima di scendere nella notte.

A tratti le arrivava il respiro alla nicotina dell’uomo vicino a lei, il profilo grifagno nell’ombra di un cappello di feltro. Si era seduto  in silenzio, una mano appoggiata con eleganza sul banco, parallela alla sua, mani quasi vicine che sembravano distaccate dai corpi. “Forse il contatto è attraverso le mani”, lei pensò, un po’ lusingata. Ma non accadeva nulla, nessun segnale, una staticità interna ficcata in ogni muscolo. E lui continuava a tacere, ignorandola con una noncuranza fastidiosa, una discordanza che le appannava ogni sensazione. L’alba non sembrava poi così vicina.

Elisabeth alzò appena gli occhi, l’altro habitué era distante, appollaiato sullo sgabello a macerare, curvo, una solitudine al bourbon. Lo sguardo si congelava tra i serbatoi di metallo alle sue spalle e il barman in bianco, fluorescente come una meteora, affaccendato nel golfo dei liquori.
Nessun altro in quello spazio ridotto all’essenziale.

Nessun contatto. La sua missione stava andando a rotoli . E lei era decisamente più abile a trascorrere le notti sulla sua Remington Streamliner che a stanare informatori alienati. Ci fosse stato uno straccio di parola d’ordine per farsi riconoscere, maledetto di un capo, solo istruzioni telegrafiche da affidare alla memoria di un appuntamento: “Abito rosso. Atteggiamento spregiudicato. Ordinare un caffè. Attendere.” Attendere che uno sconosciuto si avvicinasse a lei, esca bizzarra, snocciolando informazioni bollenti. Ma lì di bollente non c’era più nulla, e il tempo sembrava ghiaccio secco.

A guardarli tutti insieme, poteva misurare la distanza emotiva del loro isolamento tra se stessi e gli altri. E dentro c’era finita anche lei. Caspita, c’era dentro fino al collo.  E l’avrebbe scritto, ecco, perché quelle erano “le coordinate di un muro” che non si lasciava penetrare,  erano “frammenti di niente”, dove ognuno era disperatamente solo. “Una solitudine contagiosa, che la senti gelida tra le gambe, la senti contaminare i pensieri …” La sua macchina da scrivere mentale s’inceppò, e le parole le andarono di traverso, falchi che roteavano sulla sua testa. Poi, Betty La Stordita tornò puntuale a blandire le sue catastrofi.

Il caffè si era raffreddato, la schiuma liquefatta, forse ne avrebbe ordinato un altro senza berlo, o forse sì, per deliziare  la sua ansia e per il dispetto di lasciare l’impronta di rossetto sul bordo della tazza. “Ehi, ragazzo, fammi un altro caffè”. Ma lo pensò soltanto e il barman continuò, imperscrutabile, a rovistare sotto il banco.

Il racconto è liberamente ispirato al dipinto Nighthawks di Edward Hopper

Scritto da Dayla Venturi

Foto dal web