Mi sono avvicinata a questo strano romanzo, Nel labirinto, per curiosità, seguendo alcuni sentieri letterari che, come cerchi concentrici, mi hanno spinta nella sua vertigine narrativa.
Il libro (Dans le labyrinthe) è del 1959, ma Alain Robbe-Grillet aveva già scritto altri romanzi ( Les Gomme,1953 – Le Voyeur,1955 – La Jalousie, 1957) iniziando un personale percorso verso la destrutturazione del testo che caratterizzò, e questo va evidenziato, solo la prima fase della sua scrittura. Una scelta sperimentale inserita in quella tendenza letteraria francese, sorta tra il 1950 e 1960, chiamata Nouveau roman, che si proponeva appunto di rinnovare il romanzo, liberandolo dai modelli obsoleti del realismo ottocentesco. La tendenza, legata in modo particolare a questo scrittore, scomparso nel 2008, è stata anche definita suggestivamente école du regard, per la meticolosità visiva con cui la realtà e i suoi oggetti sono descritti.
Il libro, fuori catalogo da decenni, l’ho trovato presso una biblioteca nell’edizione Einaudi del 1962, traduzione di Franco Lucentini. La carta ingiallita ne conserva la seduzione.
“Questa è una storia inventata” ci avverte l’autore, fin dall’inizio,”non una testimonianza. Descrive una realtà che non è necessariamente quella che il lettore conosce per esperienza propria…” Entrare nel testo di questo romanzo, significa abbandonare la sicurezza lineare della trama per addentrarsi nella circolarità, nella vertigine, nell’anamorfosi di immagini che disattendono la prospettiva.
L’incipit ci accoglie con un’ossessiva ripetizione della stessa scena, che ci accompagnerà tra le pagine con minute varianti:
“Io qui sono solo, adesso, bene al riparo. Fuori piove, fuori la gente cammina sotto la pioggia a testa bassa, riparandosi gli occhi con la mano (…) fuori fa freddo, il vento soffia tra i rami neri, spogli; il vento soffia tra le foglie (…). Fuori c’è il sole, non c’è ombra d’alberi, né d’arbusti“. E più avanti: “Fuori nevica, Fuori ha nevicato, nevicava, nevica…”
La voce narrante si disperde nella descrizione accurata di una stanza chiusa, qui gli oggetti sono identici a se stessi, il cassettone dal marmo incrinato, la lampada, la mosca, le tende rosse, la crepa nel muro. Lo sguardo penetra tra le ombre delle pareti, tra le tracce di oggetti spostati che la polvere rivela. Di chi è questo sguardo? Il lettore ancora non conosce questo osservatore privilegiato che dallo spiraglio di una porta imprime la sua esistenza soggettiva e che a volte lascia indizi proprio per lui, quasi ad aumentarne la sua perplessità. Il luogo non è abitato, neppure disabitato, la mosca si muove lenta, la lampada è accesa, gli oggetti si lasciano guardare, invadono lo spazio narrativo.
La sequenza cronologica deraglia subito, interni e esterni, fantasia e realtà si sovrappongono, oggetti percepiti e oggetti sognati rimangono sullo stesso piano, sono indistinguibili tra loro, il filo della narrazione è spezzato: senza interruzioni si passa da una scena all’altra dove l’atmosfera stagnante è la stessa, contamina la struttura temporale, e ciò che è già accaduto si insinua in ciò che deve ancora accadere . Dalla stanza si scivola in una strada uguale ad altre strade, e qui, sotto la luce gelida di un lampione, c’è un soldato. Ha una scatola sotto il braccio, ma la scatola è sempre stata, dall’inizio alla fine, dalla fine all’inizio, sulla mensola incrinata del cassettone. Quella scatola è il punctum di tutto il romanzo, oggetto che si rivelerà per ciò che è solo nelle ultime pagine.
Sopra il cassettone c’è un quadro, il dipinto dell’interno di un caffè, mise en abyme rovesciato. Ed è da lì che escono ed entrano tutti i personaggi in un continuum allucinato tra superficie dipinta, parete, pavimento, stanza. Personaggi che non hanno un nome, sono solo la qualificazione oggettuale di ciò che appaiono allo sguardo, figure insignificanti, melanconiche, chiuse nella loro solitudine: il soldato con i numeri di matricola sui risvolti del pastrano e un involucro sotto il braccio, il ragazzo con la mantellina, la giovane donna che porta il vassoio in mano, il falso invalido appoggiato alla stampella, il dottore con il parapioggia. Il militare imprigionato nel ritratto.
Sono gli oggetti che li accompagnano a catturare l’attenzione. Ma niente rimanda a niente, nessun significato diverso da quello che viene asetticamente riferito, la realtà è quella descritta, materiale, priva di sottigliezze simboliche. Siamo arrivati a quello che R. Barthes chiama il grado zero della scrittura.
La texture del romanzo è un pathcwork di scene adagiate in un tempo immobile dove tutto resta immutato, contraddittorio, un tempo presente che trattiene la memoria dilatandosi, impedendo di scindere ricordo e immaginazione. Il labirinto è dunque la ripetizione di uno stesso percorso che muta sempre. Labirinto di strade, di scale, di corridoi, di percorsi possibili. Oppure impossibili come le strutture di M. C. Escher o quelle spiraliformi di J. L. Borges.
Il mondo di A. Robbe-Grillet indugia esasperante sulla superficie degli oggetti, gli stessi che lo scrittore osserva con distacco, quasi avesse una pen-camera analitica. E non va oltre, si fissa su questa superficie, al di là di essa non c’è altro da mostrare. Eppure se si rilegge il romanzo ricostruendo i legami tra frammenti di scene, ne emerge una visione inattesa, onirica e allucinata, dove luoghi e persone si confondono in false rassomiglianze. Siamo di fronte a un realismo ancora più fedele alla realtà, che di questa realtà non ne tralascia le distorsioni.
Leggendo Nel labirinto, sembra che il gelo delle atmosfere descritte in questo romanzo, geometricamente ripetute, esca dalle pagine, le azioni sono fredde, impaludate, spesso inutili. Ma c’è il fascino vertiginoso della frammentazione del testo con ritorni, anticipazioni, variazioni esasperanti, incoerenze e contraddizioni che mettono a dura prova il lettore. Un esempio lo troviamo nell’ossessiva presenza di analogie che si richiamano continuamente tra loro: l’ambiguità di figure simili spesso alterate tanto da mettere in luce aspetti diversi di uno stesso personaggio o rassomiglianze di due personaggi diversi:
“Questo ragazzetto è, sembra, lo stesso già veduto al caffè, che non era poi lo stesso dell’altro: di quello cioè che ha accompagnato il soldato (o l’accompagnerà in seguito) alla caserma (…) E stato questo ragazzetto qui, in ogni modo, a condurlo al caffè””
A. Robbe-Grillet
Dentro il labirinto di questo testo il lettore si potrebbe smarrire, la trama si sfalda tra fissazioni e deliri, i personaggi sono ombre su cui è impossibile identificarsi, ma io l’ho adorato, questo romanzo, e lo consiglio a chi ha voglia di avventurarsi in un testo sorprendente, disordinatamente ordinato, per ricercarne connessioni e richiami.
Un’ opera “monotona e sconcertante (…) perfetta” come ha scritto G. Genette (Figure I, Einaudi, 1988) “in cui lo spazio e la parola si aboliscono moltiplicandosi all’infinito“. Un’opera che è, parafrasando A.Rimbaud,“una vertigine “immobile”, insieme realizzata e soppressa“.
Pubblicato da Dayla Venturi